sabato 21 maggio 2011

Dal viaggio in Albania: ricordi (Liliana Lipone)





Quando l’associazione “Sulle Orme dei Servi” aveva proposto un viaggio in Albania per conoscere il progetto che lì stava realizzando, mi sono lasciata tentare, nonostante il periodo cadesse proprio nelle festività pasquali. La motivazione era essenzialmente una: conoscere questa terra, patria di tanti miei allievi che, soprattutto negli anni dal 1998 al 2005, affollavano le mie classi di scuola carceraria. Avevo imparato a conoscere gli albanesi proprio attraverso i loro racconti, attraverso le narrazioni dei loro viaggi sul gommone, del loro intrufolarsi nei rami della malavita organizzata, in particolar modo attraverso il favoreggiamento della prostituzione, delle loro reazioni impulsive e a volte estreme, tanto da portare ad uccidere e rovinare irrimediabilmente la propria giovane famiglia.
Da alcuni anni, però, seguo sul territorio anche alcune famiglie albanesi “semplici”, “sane”, “pulite”, che vivono in profondità i loro legami familiari, che si sacrificano, lavorando onestamente e seriamente, perché ai loro figli non manchi il necessario e non si sentano discriminati nel contesto italiano in cui vivono. Famiglie in cui lavoro e sacrificio sono i pilastri su cui è costruita la vita familiare.
Ero quindi curiosa di conoscere questa terra di cui avevo indirettamente una esperienza così varia.
All’aeroporto di Tirana ci aspettava suor Giovanna con un fuoristrada, poi abbiamo capito perché un tale mezzo era necessario: le strade sono tutte piene di buchi!
La prima impressione lungo la strada che da Tirana ci portava a Ishull -Lezhe mi sembrava familiare: distese di terreni, in parte incolti, con catene di montagne arrotondate che si susseguivano regolarmente, più o meno spoglie. Mi sembrava un paesaggio dell’Italia meridionale. Poche abitazioni, alcune basse e modeste, altre dall’aspetto più occidentale, vere ville a uno o più piani, terminate o in costruzione, segno che il proprietario era emigrato.
A Ishull ci aspettava una piccola comunità di Serve di Maria Riparatrice: suor Aurelia, suor Gemma e suor Marisa. Comunità non tanto giovane dal punto di vista anagrafico, (suor Giovanna, la più giovane, fa la spola tra Italia e Albania), ma giovanissima nello spirito, evangelica, accogliente, allegra, instancabile.
A queste suore è praticamente affidata la cura della parrocchia di Ishull -Lezhe, una parrocchia formata da piccoli villaggi e case sparse.
Siamo arrivati in Albania il giovedì santo, quindi proprio nel periodo del triduo pasquale. Le celebrazioni intense di questi giorni ci hanno messo subito in contatto con la comunità ecclesiale curata dalle suore. Una comunità anch’essa giovane, ma stavolta anche anagraficamente. Circa una trentina di giovani (dai 13 ai 17 anni) si preparavano alla prima comunione che sarebbe stata somministrata il giorno di Pasqua. Naturalmente c’erano anche donne e uomini, ma ricordo soprattutto donne che sembravano rassomigliarsi tutte, nei loro vestiti per lo più neri, mentre alcune lo avevano bianco, a seconda della regione di appartenenza, e l’immancabile fazzoletto in testa, anch’esso bianco o nero. Dai loro visi traspariva la sincera devozione per la liturgia e i simboli della fede.
Una comunità giovane, semplice, mi è sembrata ancora vergine, cioè disposta ad accogliere la Parola con sincerità di cuore. Una comunità accogliente anche nei nostri confronti: non è stato difficile incontrarsi e comunicare anche senza conoscere la lingua!
Un esempio per tutti la famiglia di Matias che l’associazione aiuta nella costruzione di un pozzo. Una famiglia povera ma di grande dignità, una casa modestissima ma linda e accogliente e direi sorridente come tutta la famiglia che vi abita. Tre figli stupendi e una moglie lavoratrice e affabile, vero cuore della casa. Una fede custodita gelosamente tra i divieti del comunismo e mantenuta viva dalla nonna paterna che in silenzio ascoltava quello che il figlio ricordava della sua infanzia.
Alcuni pensieri mi hanno accompagnata al mio ritorno in Italia che mi piace condividere.
Le suore arrivavano in chiesa sempre un’ora prima, non solo per preparare la liturgia, ma anche e soprattutto per fare “accoglienza”: erano sulla porta in attesa e accoglievano, col gesto, la parola, l’attenzione, quelli che arrivavano. Per tutti, indistintamente, bambini, giovani, anziani, c’era del tempo da dedicare. Forse le nostre comunità occidentali dovrebbero prendere esempio: chi presiede nelle nostre comunità parrocchiali, o chi collabora, ha ancora del tempo da dedicare ai suoi parrocchiani?
Il comunismo ha sempre spaventato la chiesa e ancora oggi viene sventolato come spauracchio dai nostri politicanti; dinanzi a queste comunità così fresche ho pensato che il comunismo ha anche abbattuto edifici di chiese e conventi, ma non è riuscito a essiccare la sorgente che è nel cuore. Quanto più oggi, invece, dovrebbe far tremare il consumismo che sta inaridendo il cuore dell’uomo e della donna?